RACCONTO DI LEA DURANTE
Ho scritto questo racconto per dare anch'io un contributo alla campagna di raccolta firme per il referendum contro la caccia che è in atto in questi giorni. La caccia non è uno sport, è una pratica dietro la quale si celano violenza, pericolo, limitazione dello spazio aperto, mercato nero delle carni, affari sporchi. Ma soprattutto la legittimazione al possesso delle armi, in casa. Non le doppiette dei cartoni animati che bruciavano il sedere a Pluto e Clarabella, ma armi di precisione sempre più sofisticate che di deroga in deroga sono sempre più presenti in milioni di case.
Grazie al Corriere del Mezzogiorno per averlo voluto.
LE BESTIE
Dalla strada a ridosso di Salecchia i rantoli del cinghiale si sentivano forti, e anche i colpi, inferti con la canna del fucile all'animale morente dai due uomini che a calci tenevano lontani i piccoli nati, rumorosi e molesti. Rapidamente il signor Marco sventrò l'animale che ancora respirava, e ne estrasse l'intestino palpitante, lasciandolo su un letto di foglie e terriccio. Biletra abbaiava, mentre a fatica Marco e Salvatore caricavano il bottino di caccia sulla vecchia Polo giardinetta che usavano in queste occasioni: un mezzo scassato che viaggiava senza assicurazione e senza bollo per le strade impervie dei Monti Dauni. Con Vittorio erano già d'accordo: avrebbero portato come al solito a lui il cinghiale. Ma presto, però. Nel garage alle porte di Deliceto ne aveva già altri due, portati la sera prima da gente di Orsara, e non poteva aspettare troppo. Durante il breve viaggio, Biletra era eccitatissimo, quell'odore di sangue aspro non lo faceva stare tranquillo, e si agitava, leccava, annusava. Schivarono un istrice per un pelo, bestemmiando. I fucili ancora carichi e le mani sporchissime. I cinghiali erano veramente troppi nella zona, e i confinamenti per il Covid li avevano resi ancor meno selvatici, più sicuri, più arditi. Che poi, cinghiali... Lo sapevano tutti che erano porcastri nati dagli incroci con i cinghialoni romeni introdotti dai cacciatori anni fa. Una bomba a orologeria per l'equilibrio faunistico locale, qui e in tutt'Italia. E adesso, roba da matti, gli stessi cacciatori si proponevano come i risolutori del problema che avevano causato e reclamavano dallo Stato deroghe ai limiti di caccia, porto d'armi per fucili di precisione e perfino il diritto di andare nelle scuole a parlare di natura.
Marco e Salvatore erano amici da sempre. Come con Vittorio. Ora si godevano la pensione uscendo tutte le volte che gli andava, ma da giovani uscivano solo la domenica. E avevano una bella attrezzatura, invidiata pure dai cacciatori turisti che venivano in inverno. Salvatore era un professionista dei richiami vivi, mentre Marco era fissato con i cani. Stavano insieme pure quella volta che il vecchio fucile del padre di Marco sparò per errore un colpo staccando tre dita al nipotino di tredici anni. Una disgrazia, ma bene com'era andata, continuava a ripetere Marco al figlio ormai trentenne che quella leggerezza del nonno non riusciva a perdonarla.
Biletra scese per primo. Conosceva bene il posto, e Vittorio gli fece trovare il solito osso di benvenuto. Saltellò per il garage che sapeva di carne marcia, trotterellò sul selciato alla luce della luna che saliva, lasciò qualche spruzzo sulla staccionata. I tre amici presero una birra fredda: il cinghiale era pesantissimo, e loro non più ragazzi. Il vocione di Biletra era inopportuno, attirava l'attenzione. E Vittorio, del resto, non riusciva a capire la passione di Marco per un cane che non era da caccia: aveva avuto breton bellissimi, setter scattanti al primo fischio e li aveva lasciati o finiti senza un filo di esitazione quando non erano stati più buoni, invece questo pastore bianco l dal passo lento, dall'indole inoffensiva, come i tanti che si vedevano dietro le pecore dell'Appennino, o randagi sulle montagne, era la luce dei suoi occhi, da quando l'aveva trovato cucciolo sul letto del torrente di cui gli aveva dato il nome.
A notte alta Marco e Salvatore si rimisero in macchina per Bovino. Biletra si era avviato per fatti suoi, come faceva sempre: voleva camminare, sapeva la strada.
Vittorio aveva preparato il furgone con le tre bestie. Non temeva i controlli, nessuno l'aveva mai fermato. E inoltre non vedeva il problema. La caccia fuori stagione, la vendita di animali non controllati dalle autorità sanitarie, il trasporto abusivo, gli sembravano stronzate. Ai cacciatori chiedeva solo di togliere immediatamente l'intestino agli animali, per evitare la contaminazione con certi parassiti che sapeva lui, comunissimi nei cinghiali e molto pericolosi. Aveva la sua etica, e voleva il prodotto affidabile, per non perdere i compratori. Peccato che quegli intestini buttati senza troppi complimenti fra i boschi facevano i loro danni nella catena alimentare dei piccoli predatori. Ma questo a Vittorio non importava di certo. Uscì dal garage che non c'era nessuno in giro. Scese dall'abitacolo a luci spente per richiudersi tutto dietro e tirò con forza la dura saracinesca, che scivolò di corsa. Solo un piccolo grido, breve. E la saracinesca che non toccava terra. Vittorio accese la luce per capire. Biletra basso, con la colonna vertebrale spezzata lo guardava chiedendo aiuto, la lingua fuori, una zampa alzata. Vittorio non perse tempo, non c'era tempo. Non poteva sparargli adesso, in paese, afferrò una pala da neve che era ancora appoggiata al muro e gli assestò un unico colpo sulla testa. Biletra morì all'istante. Poi lo caricò sul furgone, in attesa di disfarsene alla prima occasione, certamente non qui, dove anche sua moglie l'avrebbe visto se l'indomani mattina fosse scesa nel garage per prendere una bottiglia di conserva. Olmina era molto amica di Maria, la moglie di Marco, e non voleva metterla nei casini. Un incidente davvero fastidioso, anzi una rottura di palle.
Porca miseria, a quest'ora Marco si sarà accorto che al solito comando, quasi a metà strada fra i due paesi, in mezzo ai crepacci, Biletra non rispondeva. Lo stava sicuramente cercando, scatarrando improperi al cielo, con l'aiuto di Salvatore e qualche altro amico. Vittorio intanto aveva scavalcato Caianello e si dirigeva verso nord. Era stanco e seccato. Odiare i fastidi era proprio la sua caratteristica principale. E nonostante l'ora l'autostrada era trafficata.
La prassi di questo commercio era ormai diventata solida: in Toscana, Umbria e Lazio la richiesta di carne di cinghiale era sempre altissima, persino in estate. Tutto merito di questa benedetta "tradizione" con la quale un sacco di gente stava facendo fortuna, vendendo qualunque cosa come sana, genuina, locale. Eppure da quelle parti di cinghiali ce n'erano tanti, ma si vede che non bastavano per tutti i turisti della domenica, desiderosi di passare per un giorno almeno dai bastoncini di pesce surgelati alla "vera" natura.
Insomma, si facevano soldi facili con questo sistema. E in più c'era il divertimento della caccia e pure quello di fregare i controlli, che è sempre una cosa bella.
In sosta all'autogrill Vittorio incontrò due pattuglie. Il sole stava sorgendo, ma quella puzza di fango e merda che si portava dietro da ore richiedeva un caffè adesso, caramba o non caramba. Parcheggiò, tirò il freno e venne giù, respirando a pieni polmoni davanti alla campagna già arata. Arrivò di buon mattino a quell'agriturismo di cui non riusciva mai a memorizzare il nome, in mezzo a un querceto che gli ricordava casa sua. Lo aspettavano con la solita cordialità, uno spuntino di uova e ottimo formaggio, pacche, scambi di saluti. E i soldi. Gli operai aprirono il furgone e il proprietario controllò. Alla vista del cane chiese cosa fosse successo. Vittorio aveva dimenticato che Biletra era ancorà lì, e accettò di buon grado l'offerta di lasciarlo. I suoi amici del posto avrebberpo provveduto per lui. Scansò le galline e le oche e si rimise in viaggio per tornare.
Gli operai attendevano ordini.
- Capo, portiamo le bestie in cucina?
-Sì.
-Tutt'e tre?
-Tutt'e quattro.
A mezzogiorno Vittorio era già a casa. Cazzo, se aveva corso. Gradì solo un'insalata di pomodori e un bicchiere di vino, gli piaceva restare leggero.